Islands | King Crimson (Wikimedia)

Islands, il Re Cremisi e la musica delle isole

Ho ascoltato per la prima volta Islands dei King Crimson alla radio. Era appena uscito agli inizi degli anni settanta. Ricordo che il presentatore disse: ‘il più bell’assolo di cornetta mai ascoltato’, ‘una delle cose più belle mai incise’. Rimasi come folgorato da quelle parole. Accade sempre così, quando c’è qualcuno che ‘carica’ il messaggio, lo rende iperbolico, scatta subito la curiosità di ascoltare. Non ricordo cosa stessi facendo, forse studiavo.
Presi la radio Voxson di mio padre, che ancora conservo in casa, la avvicinai alle orecchie e decisi di non perdere nemmeno una nota del brano che stava per partire. Se ci penso, è ancora sorprendente (e attuale) l’emozione che provai all’ascolto.
Perché Islands, il brano che dà il titolo all’intero album, è costruito in modo molto sottile, è davvero di una delicatezza assoluta, sembra tenersi appena, sembra sfilacciarsi di momento in momento. E invece si dimostra nei fatti solidissimo, tiene molto bene l’esecuzione e l’ascolto. Perché tutto si regge in massima parte sul pianoforte di Keith Tippett, sulla delicatezza di quelle note, capaci tuttavia di tenersi assieme come l’acciaio.
La voce di Boz è calda e mediterranea (così come potrebbe un anglosassone). I flauti di Mel Collins sono una metafora dei refoli d’aria e dei canti che fanno tremolare le isole e la loro pace infinita. Il mellotron disegna un tappeto che si industria a cucire tutti i passaggi. Ebbene, Island è uno dei pochi casi in cui il mezzo è davvero il messaggio, un brano che si fa ‘isola’, che ne rappresenta in modo quasi didascalico il contenuto, che si risolve in una specie di richiamo invaghito alle isole mediterranee.
Tutto nacque, difatti, da un’infatuazione di Peter Sinfield , il poeta del gruppo, che visitò presumibilmente Formentera che, in quegli anni, era l’isola hippy, l’isola alternativa. L’ispirazione produsse un album (Islands, appunto) che fu il tentativo (ben riuscito) di raffigurare quasi pittoricamente il mito e l’incanto di quelle isole.
Se non che, tutta la prima parte del brano, per quanto incantevole di per sé, sembra star lì soltanto per creare l’occasione entro cui avrebbe preso corpo la cosa che mi raccontava entusiasta il presentatore radiofonico, ossia l’assolo di cornetta di Marc Charig, che compare in coda al brano a suggello.
Una cosa talmente sublime, quest’assolo, talmente riuscita, che ancor oggi stento a capirne a fondo il mistero. Una cosa per la quale vorresti subito gettarti nel mare di quelle isole invocate, tanto è coinvolgente e suggestiva. Una cosa che probabilmente se non l’hai sentita dovresti affrettarti a farlo, tanto è bello e infrequente un assolo come quello di Charig, tanto accadono così raramente questi eventi nel corso della storia musicale.
In quei minuti finali del brano, col pathos che sale, le note di Charig ti spingono in alto, sin dove si è pronti a svanire, magari dissolti nei fumi dell’aria, nei riflessi azzurri, negli umori del mare, nel mito delle isole, nelle linee tracciate dai gabbiani nel cielo. Bob Fripp si limita a sottolineare la performance di Charig con il mellotron (una tastiera da usare armonicamente, a nastri preregistrati – a differenza del moog, che invece sintetizzava elettronicamente suoni e poteva essere usato anche melodicamente). Ian Wallace, con la sua batteria, entra solo sul finale per caricare di tensione l’atmosfera. Alla fine hai quasi un groppo alla gola, e guardate che io avrò sentito Islands migliaia di volte (non scherzo) per sentirmene sempre emozionato come la prima.
Fatemi dire anche una cosa curiosa, che segnala l’eccezionalità dell’evento: Islands, il brano, è contenuto sull’LP Islands, la cui etichetta è Island! Troppo per non restare basiti, per non essere certi che non si tratti di un evento. Torniamo a tanti anni fa. Dopo quel primo ascolto, mi precipitai il giorno stesso alla Discoteca Laziali. Acquistai Islands e lo presi con me quasi fosse una reliquia. Vedete, una volta, acquistare un disco era davvero acquistare ‘qualcosa’, un oggetto di una certa dimensione, con una copertina che era  grande e di impatto. Niente a che vedere con il CD, tanto meno con le tracce che scarichi dalla rete, invisibili, impalpabili, spettrali. Ebbi però la pessima idea di prestare l’LP a un amico, che me lo restituì rigato. Non mi persi d’animo: andai una domenica mattina a Porta Portese, vendetti quella copia, e coi soldi ne acquistai una nuova.
Nel frattempo avevo registrato una cassetta ed evitai di usare più il vinile, che si mantenne nuovo e integro. Poi acquistai il CD, poi ci furono le tracce scaricate, poi un’edizione del 40ennale rimasterizzata. Tante mutazioni fisiche che non pregiudicavano la sostanza: mentre scrivo sto ascoltando Marc Charig, quel suo assolo, ho davanti a me il tappeto di note di Tippett che lo sostiene e la base melodica del mellotron di Fripp.
La suggestione è tutta dentro di me, e se chiudo gli occhi le isole mi pare di percepirle davvero, come una visione. Poggiate sul mare, verdi, azzurre, una sorta di sogno.  La musica, in fondo, nasce per procurare delle emozioni, come tutte le arti, le quali sono anche conoscenza, come no, ma sono soprattutto un’inclinazione dell’animo e dei sentimenti. Islands assolve in pieno a questo compito e se, dopo un ‘pezzo’ iperbolico come quello che state leggendo, nessuno proverà il desiderio di andare ad ascoltare al più presto il brano vorrà dire due cose: io non vi ho convinto, oppure siete del tutto insensibili. In tal caso ve la meritate la musica pop ‘potoshoppata’ in studio, come se fosse un puro e freddo composto chimico!

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